L'idea di Humanistic Management |
Giovedì 02 Maggio 2013 19:03 | |||
Combattere la stupidità! Questo il senso dell'intervento di Marco Minghetti, direttore scientifico GSO e professore di Humanistic Management all'Università di Pavia, che nel suo libro "L'intelligenza collaborativa. Verso la social organization" (editore Egea) fornisce una guida pratica per tutti i CEO e i direttori delle risorse umane i quali abbiano intenzione di cambiare i propri modelli gestionali a favore del lavoro collaborativo. Le organizzazioni sono chiamate oggi a sostituire con l'intelligenza collaborativa le proprie inefficienze, dovute al mancato sfruttamento e alla mancata emersione della conoscenza implicita dei propri dipendenti – o, meglio, "collaboratori". Il senso di ciò è abilitare, attraverso modalità tecnologiche, cognitive e culturali, un modello organizzativo fondato sulla partecipazione di tutti gli stakeholder: la co-generazione di valore al servizio di un'opera collettiva. Pochi pensano e gli altri eseguono, dunque. È il motto di un collaudato sistema (qui il riferimento alla stupidità) in cui non emergono i migliori poiché non viene data importanza al contributo creativo che ogni lavoratore è potenzialmente in grado di dare. Chi lavora è tenuto semplicemente ad eseguire una mansione. Si tratta di un'impostazione in cui il potere dall'alto scende a cascata verso il basso trascurando la trasparenza dei processi e in cui le strategie sono definite da un vertice ristretto in grado di esercitare un ferreo controllo. Se ci ragioniamo bene, sono le caratteristiche – salvo rare eccezione – di qualsiasi azienda sia pubblica che privata. Questo archetipo gestionale, che risale agli inizi del 1900, nasce con l'intento di ottenere larghe efficienze di scala. È il principio del taylorismo e del fordismo i quali "si ripromettevano di realizzare una macchina per ciascun americano, purché questa fosse nera" (qualche somiglianza con il monopolio dei sistemi operativi Microsoft?). Le moderne organizzazioni nutrono ancora questo spirito di razionalizzazione basandosi sul concetto di burocrazia weberiana nella quale predominano parole come standardizzazione, specializzazione, gerarchia, conformismo e – appunto – controllo. Il risultato è la continua ricerca di best practice (inutili, data la rapidità del cambiamento) e della one best way, imposte dall'alto al subordinato di turno che è dunque escluso dal rispondere alla domanda: "Come potresti fare meglio?". Paradossalmente lo scientific management teorizzato da Taylor (o management 1.0 se vogliamo essere moderni) è ancora profondamente radicato nei processi cognitivi del management attuale, in contrapposizione con la cultura dilagante venutasi a creare nella società dopo l'avvento di Internet ed in particolar modo con l'uso dei social media e del social networking, ovvero il cuore del web 2.0. Gary Hamel, uno dei maggiori teorizzatori e sostenitori del change management – denominato management 2.0 perché ispirato alle logiche del web – in un articolo del novembre 2011 traccia le coordinate che definiscono il senso del cambiamento che stiamo vivendo, segnando un punto di svolta nella teoria dei modelli organizzativi. Hamel descrive alcune delle caratteristiche peculiari di questo nuovo modello – culturale prima ancora che organizzativo e operativo – individuando come asse portante del cambiamento la trasformazione del potere dall'alto verso il basso e ipotizzando una sua decentralizzazione a favore di una struttura reticolare e periferica piuttosto che piramidale. Marco Minghetti, citando l'autore, spiega come fuori dagli uffici siamo soliti a ritrovarci su Facebook e vivere in un modello culturale condiviso capace di fare esplodere nuove forme di vita organizzativa, in cui la conoscenza condivisa trionfa sui singoli, dove nascono community in modo spontaneo, dove i titoli formali valgono meno del contributo apportato e le valutazioni vengono fatte dai pari grado. In una società dove questo è il background dominante poiché su piattaforme collaborative, come Facebook ad esempio, ci siamo quasi tutti, è auspicabile che queste logiche con le quali siamo abituati a ragionare possano essere trasferite anche all'interno dei meccanismi aziendali. Sostiene sempre Marco Minghetti che «prima del web era difficile immaginare una vera alternativa a questa ortodossia manageriale. Siamo nel pieno del cambiamento, in Italia circa quindici milioni di utenti attivi sono presenti sui social network e per la maggior parte non si tratta di nativi digitali. Ci stiamo abituando ad utilizzare il sistema dell'intelligenza collaborativa ma la classe dirigenziale è troppo vecchia per capire queste logiche». Non si tratta di fantasie per intellettuali, il ragionamento risponde a una precisa esigenza economica: nel luglio del 2012, analizzando solamente cinque settori di business, la società di consulenza McKinsey, una tra le più grandi degli Stati Uniti, stima il mancato utilizzo della social economy (così viene definita l'economia dell'intelligenza collaborativa) per circa milletrecento miliardi di dollari. Andrea Gatti Casati
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Ultimo aggiornamento Venerdì 03 Maggio 2013 09:24 |