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La scrivania non serve a chi lavora sulle idee

Venerdì 07 Ottobre 2011 10:49

Si pubblica l’intervista al Prof. Federico Butera, condotta da Dario Banfi e pubblicata sul Corriere delle Comunicazioni (n. 15/2011).
  “La scrivania non serve a chi lavora sulle idee”
Federico Butera: modello vincente per i knowledge worker
Ordinario di Sociologia all'Università di Milano Bicocca, Federico Butera è tra i maggiori esperti italiani di organizzazione del lavoro. Con il saggio Il Cambiamento organizzativo (Laterza, 2009) è entrato negli uffici moderni “a geometria variabile” per studiarne le strutture.

Abbattere muri, eliminare le scrivanie, favorire il lavoro flessibile e da remoto sono vere novità?

Grandi società di consulenza o di ricerca hanno già adottato da anni questi modelli. Ricercatori, scrittori, designer, architetti: per loro un punto di appoggio sempre uguale non è necessario. Così come non serve a chi è spesso dal cliente. Oggi si è estesa questa logica al lavoro di gruppo. La novità sta nell’avere compreso che dove prevale il lavoro cognitivo il vero posto di lavoro è nella testa delle persone.

Informalità, flessibilità e l’eliminazione di procedure standard accompagnano questo fenomeno. Perché?

Quando si passa da un lavoro individuale e ripetitivo ad attività collaborative si modificano anche i luoghi e i layout. Se un processo elaborativo richiede tempo e serve concentrazione occorre stare stabilmente in un posto, ma se ciò che conta di più sono le relazioni e gli scambi, che richiedono rapidità e informalità, si perde l’idea di luogo dove “ritirarsi” per pensare.

Niente più posto fisso, piante o cornici. Non incide negativamente su motivazioni e produttività?

Dipende. Se il nuovo set di lavoro prevede processi flessibili, il contenuto del lavoro cambia periodicamente nel tempi e nei modi e operiamo a distanza, ma i risultati che otteniamo sono condivisi, si può anche rinunciare agli spazi riservati, alla foto del figlio. La produttività certamente cresce. Se però il lavoro continua e essere individuale e si risparmia soltanto sugli spazi facendo vagare le persone nell’ufficio, l’effetto è contrario.

Servono però spazi di decongestione e socialità…

Certo. I grandi centri si definiscono “campus”, come all’Università si portano bicicletta e cani. Ci sono facility di ogni genere, perfino dispenser di dolci. Tutto serve a premiare i lavoratori. La cura e la convivialità accompagnano la perdita di quell’angolo quasi domestico che era il nostro posto fisso.

Questa trasformazione può servire anche alle piccole imprese?

Penso di sì, ma là dove non occorre lavorare con strumenti particolari o in maniera ripetitiva su grandi pile di carta. Dirigenti, manager, professionisti e creativi possono fare a meno di una scrivania. Per modificare il lavoro esecutivo dei “clerks” va invece  cambiata l’organizzazione del lavoro.

E nella Pubblica Amministrazione?

Qui colpiscono l’enormità degli spazi, acquisiti per aumentare il valore patrimoniale, e il numero di chi lavora visibilmente poco. Sono uffici costruiti con l’idea di consumare spazio e impiegare persone. Non basta cambiare le scrivanie, occorre ridisegnare ruoli e attività, con l’aiuto delle tecnologie.

E di quali tecnologie hanno più bisogno i lavoratori coinvolti in questi processi di flessibilità del lavoro?

Oggi c’è ampia disponibilità di tutto ciò che serve per comunicare, archiviare e condividere informazioni, accedere ai dati in mobilità e altro ancora. Questo aumenta in maniera vertiginosa la produttività, ma occorrere potenziare un elemento spesso sottovalutato: l’attenzione. La disponibilità elevata di dati va a scapito del loro uso consapevole e rielaborato con cura. Oltre accumulare dati e comunicare, siamo in grado di consolidare una ricerca fatta o i contatti avuti per rielaborarli con attenzione e aggiungere valore nel tempo? Serve più profondità, non soltanto ampiezza nei processi di lavoro.

Intervista di Dario Banfi
Fonte: Corriere delle Comunicazioni n. 15/2011

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Ultimo aggiornamento Venerdì 07 Ottobre 2011 14:51